SÖREN AABYE KIERKEGAARD

Biografia

Sören Kierkegaard nacque nel 1813 a Copenhagen in Danimarca e fu educato da un padre anziano nel clima di una religiosità severa. All’università di Copenhagen si iscrisse alla facoltà di teologia, disciplina in cui si laureò circa dieci anni dopo con una dissertazione “Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate”, che avrebbe pubblicato poi l’anno seguente: nonostante la sua laurea, egli non intraprese la carriera di pastore. Nel 1841-1842 visse a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling sulla sua filosofia positiva basata sulla distinzione tra realtà e ragione, ma ben presto perse l’entusiasmo per la sua dottrina fino a rimanerne deluso. In seguito egli visse nella sua città natale con un cospicuo capitale lasciatogli dal padre, immerso nella composizione dei suoi libri. Nella sua vita gli episodi spiacevoli sono pochi e apparentemente insignificanti, tuttavia essi hanno avuto una forte influenza nella sua vita interiore e nelle sue opere: tra questi il più importante fu sicuramente il fidanzamento e la successiva separazione (voluta da lui stesso) da Regina Olsen. Nel “Diario di un seduttore” (opera postuma) egli parla di un grande terremoto che si è prodotto ad un certo punto nella sua vita e che lo ha costretto a mutare il proprio atteggiamento di fronte al mondo, ma la causa viene soltanto accennata e rimane una minaccia vaga e insieme terribile. Sempre nel “Diario” il filosofo danese parla di una “scheggia nelle carni” che egli è stato destinato a portare, e proprio nella mancanza di dati precisi sta il carattere ossessionane dell’intera faccenda: fu probabilmente questa scheggia a spingerlo a rompere il fidanzamento con Regina Olsen, senza nessun motivo, oppresso solo dal senso di una minaccia oscura e inafferrabile. Sempre per questo motivo egli non intraprese nè la carriera di pastore, nè nessun altra e pubblicò tutti i suoi scritti sotto pseudonimi diversi. Kierkegaard morì nel 1855.

 

“Il concetto dell’angoscia” (1844)

L’angoscia di cui parla Kierkegaard è il “sentimento del possibile”, cioè quello stato d’animo che prende l’uomo quando si trova dinanzi alla libertà e alle infinite possibilità negative che incombono sulla sua vita e sulla sua personalità. Proprio per queste sue caratteristiche l’angoscia è diversa dalla paura che si prova davanti a un pericolo preciso. Lo stesso filosofo danese ha vissuto in pieno la figura da egli descrita nelle ultime pagine della sua opera “Il concetto dell’angoscia”, pubblicata nel 1844: quella del discepolo dell’angoscia, cioè di colui che sente dentro di sè le terribili e devastanti possibilità che ogni alternativa dell’esistenza gli prospetta. Perciò di fronte a ogni alternativa Kierkegaard si è sentito paralizzato, impossibilitato a scegliere.

L’angoscia inoltre è un sentimento tipicamente umano e viene provata soltanto da chi ha spirito: egli stesso asserisce che “più profonda è l’angoscia, più grande è l’uomo”. La povertà spirituale sottrae l’uomo all’angoscia, ma in questo modo egli diventa lo schiavo di qualsiasi circostanza: l’angoscia è la più gravosa di tutte le categorie.

 

«Nesun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, nè sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, nè nel divertimento, nè nel chiasso, nè sotto il lavoro, nè di giorno, nè di notte

 

L’unico modo efficace per contrastare l’angoscia e i suoi tormenti non è l’accortezza umana, bensì la fede religiosa in Colui al quale tutto è possibile, cioè Dio. Solo nel Cristianesimo egli vede un’àncora di salvezza, in quanto esso gli sembra insegnare quella stessa dottrina dell’esistenza e offrire, con la fede, un modo per sottrarre l’uomo all’angoscia e alla disperazione, che costituiscono l’esistenza.

Nonostante i suoi benefici, la fede è, però, paradosso e scandalo: Cristo è il segno di questo paradosso, poichè è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo.

Kierkegaard inoltre collega l’angoscia strettamente con il principio dell’infinità o dell’onnipotenza del possibile: per questo principio, ogni possibilità favorevole all’uomo è annientata dall’infinito numero delle possibilità sfavorevoli. E’ l’infinità o indeterminatezza delle possibilità che rende insuperabile l’angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell’uomo nel mondo.

 

La disperazione: “La malattia mortale” (1849).

Mentre l’angoscia si riferisce al rapporto dell’uomo con il mondo, la disperazione si riferisce al rapporto dell’uomo con se stesso, cioè con il suo io interiore. In questo rapporto, se l’io vuol essere se stesso, poiché è finito e insufficiente a se stesso, non giungerà mai all’equilibrio e al riposo. Viceversa, se non vuol essere se stesso, urta anche qui nell’impossibilità. In entrambi i casi quindi sopraggiunge la disperazione, che è una malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma perché è il vivere la morte dell’io. A questo concetto Kierkegaard dedica una delle sue opere principali, intitolata “la malattia mortale” e pubblicata nel 1849.

Ogni uomo è malato di disperazione, che ne sia consapevole o meno, e l’unica terapia efficace contro di essa è la fede, cioè quella condizione in cui l’io, pur volendo essere se stesso, riconosce di non essere autosufficiente e perciò la sua dipendenza da Dio, il quale è l’unico in grado di garantire la sua realizzazione.

L’uomo deve quindi volere la disperazione, poiché riconoscendosi in preda ad essa egli può volgersi alla ricerca di una salvezza.

 

«La possibilità è l’unica cosa che salva. Quando uno sviene si manda per acqua, acqua di colonia, gocce di Hoffmann; ma quando qualcuno vuol disperarsi bisogna dire: “Trovate una possibilità, trovategli una possibilità”. La possibilità è l’unico rimedio; dategli una possibilità e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l’uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria. Talvolta l’inventiva della fantasia umana può bastare per trovare una possibilità; ma alla fine, cioè quando si tratta di credere, giova soltanto questo, che a Dio tutto è possibile».

 

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Percorso interdisciplinare di Pamela De Pasquale Anno Scolastico 2004-2005 Liceo Scientifico "G.Oberdan" Trieste